di Catherine COLO, La Graphologie, ottobre 1993, pp. 38-45
La simbologia del cerchio, della forma che include, ci ha portato a prendere in considerazione il gruppo delle firme “circondate” inserite in un cerchio o in un ovale, che abbiamo scelto di chiamare “firme racchiuse”:
• Racchiudere significa inserire, includere una cosa in un’altra, così come chiudere con una chiave.
Si tratta proprio di questo: il nome, la firma stessa sono racchiuse nel cerchio. Che cosa chiude questa chiave? E in che caso forse lo si può aprire?
Finora noi abbiamo privilegiato il concetto di rinchiudere; mettersi all’interno di un cerchio, di una bolla per proteggersi dagli attacchi esterni, cercare un rifugio, una sicurezza in una forma di un simbolismo fetale, ripiegarsi all’interno per non vedere più il pericolo esterno…La posizione del testo ci sembrava spesso confermare questa interpretazione: impaginazione “a isola”, testo isolato nel centro della pagina, rifugio nella torre d’avorio, protezione ottenuta dai grandi spazi bianchi che circondano il testo, annullamento in qualche modo di una buona parte di vita, di spazio e di tempo esterni e di conseguenza sicuramente anche annullamento dell’Altro considerato un pericolo troppo difficile da affrontare. Molto spesso anche la fragilità della scrittura completava il quadro.Noi eravamo dunque indotti a descrivere delle personalità timorose, ripiegate nella loro isola, alla ricerca di rifugi rassicuranti in un universo così ristretto, limitato ai soli spazi vivibili.
Ma forse abbiamo trascurato qualcosa in questa nostra interpretazione? Non abbiamo avuto la tendenza a restare a un primo livello giustificato da ciò che osserviamo ma le cui conseguenze ci sfuggono? Perché, una volta raggiunta la sicurezza l’uomo si trasforma: continua eternamente a proteggersi, utilizzando tutta la sua energia per barricarsi? O egli trova così, perché finalmente fuori pericolo, l’impressione, forse l’illusione, ma che può realizzarsi, che poiché non gli può succedere più niente, egli si senta intoccabile, grande, addirittura potente, e che improvvisamente possa dirlo, esprimerlo, comportarsi in conseguenza con più o meno misura o obiettivi come vedremo in seguito? Dal concetto di recinto, noi abbiamo soprattutto tratto l’idea di chiusura e di protezione; avevamo forse dimenticato che, una volta protetto, l’individuo può credersi libero o potente e che una chiave può chiudere ma può anche aprire!
Consideriamo brevemente tre firme illustri: quelle dei generali Lannes e Bugeaud e quella dello scultore Rude. Due militari e un artista che ha scelto spesso il tema della guerra e della vittoria (pensiamo all’Arco di Trionfo). Lannes considerato il miglior generale di Napoleone e celebre per il suo coraggio straordinario; Il maresciallo Bugeaud di una spietata crudeltà al momento dell’insurrezione, ma anche Padre Bugeaud molto sollecito verso i suoi compagni d’armi (l’uomo col berretto militare!), infine Rude dalla forza, dall’indipendenza e dallo spirito innovatore molto marcati. Che cosa si può leggere nelle tre firme?

Il cerchio è un rifugio, un’armatura, che protegge tanto più quanto la sua forma levigata, senza asperità non consente alcun punto di contatto col mondo esterno; ma contemporaneamente a questa protezione, il cerchio permette un’espansione, un’estensione della firma; grazie ad esso la superficie occupata è ingrandita, amplificata. Così protetti questi uomini non diventano invulnerabili?
Essi hanno marcato il loro territorio (nozione di difesa) ma lo hanno anche allargato, hanno ingrandito il loro spazio di intervento e dunque superato i loro limiti. Essi hanno messo in evidenza, nel centro di questo oblò, di questo occhio di bue, quel nome che senza l’armatura non avrebbe forse potuto annunciarsi così grandioso. Essi si sono forse allora creduti un giorno non soltanto il centro di questo cerchio ma piuttosto il centro del mondo.
Sono queste tre nozioni che possono essere interessanti da approfondire prima di guardare più attentamente le scritture.
Marcare il proprio territorio; noi conosciamo bene questa necessità dell’uomo di definire il suo spazio, di organizzare le sue attività, le sue relazioni sociali secondo un insieme di distanze determinate; il territorio così concepito è come un prolungamento necessario di sé. Janine Monnot e Charlotte Dugueyt avevano introdotto questo concetto, in occasione del Congresso dell’ 89, parlando di questo “sentimento delle frontiere dell’Io, di una periferia sempre fluttuante collegata sia all’essere interiore che ai fenomeni esterni.
Di nuovo diamo un semplice sguardo sulle firme di Lannes e Bugeaud e vediamo questo legame magico, questo cordone ombelicale che mantiene l’interazione costante esterno-interno.
Ogni cosa fisica possiede questo limite che la separa dall’ambiente esterno. Limite totalmente necessario a ciascuno; basta trovarsi in una folla, dentro il metro per capire come è forse penoso vedere questo limite personale improvvisamente infranto dall’altro, sentire come la riduzione della solita distanza sociale tra il limite dell’uno e quello dell’altro può significare repentina intrusione e allarme. Ma se per alcuni questo limite sembra sufficientemente interiorizzato perché possono estenderlo, spostarlo e modularlo secondo le circostanze, le necessità o le costrizioni, sembrerebbe che altri abbiano bisogno di definirlo meglio creando come l’animale una zona territoriale intorno a loro, sia per difenderla che per prenderne possesso. Hediger, celebre specialista della psicologia animale diceva che si poteva immaginare questa distanza personale sotto forma di una piccola sfera protettrice o bolla che un organismo creava intorno a sé.
Ma noi abbiamo detto: definire il proprio territorio per difenderlo, ma anche per prenderne possesso. I punti di riferimento esterni così stabiliti sembrano in effetti permettere di rinforzare i punti di riferimento interni. Ed è forse questo che noi dimentichiamo troppo spesso davanti a questo tipo di firme. All’interno di questo cerchio magico si può avere l’illusione: ”Non ho più paura, nessuno potrà invadere il mio territorio, e poiché non sono più in pericolo sono potente e libero!” Questa bolla permette contemporaneamente un allargamento e un riorientamento dello spazio. Questo, come il tempo, è diffuso; non si può mai mostrarne il centro. Ma nel mezzo di queste linee di demarcazione, questi individui ne hanno allargato i limiti e ne hanno trovato il centro: loro stessi. Questo potrebbe evocare quella celebre frase di Pascal: “un cerchio il cui centro è dappertutto e la circonferenza da nessuna parte.”
Come si vede negli esempi sotto, sono in evidenza la sfacciataggine sorprendente di certe scritture e la fiducia in se stessi ostentata.
Ecco, a partire da 112 casi studiati, qualche esempio delle differenti tipologie dell’inclusione che si possono evidenziare.
Esempio 1
Uomo di 27 anni, studi scientifici

Le diseguaglianze di tutti i generi, i cambiamenti di andatura e l’assenza di ritmo (presenti nel testo che non ha potuto essere riprodotto) ben denotano le incertezze che hanno giustificato la paraffa che protegge. Ma la dimensione della zona media e gli allunghi, l’assenza di margine superiore (intervenire subito, prima dell’altro, sfidando un’autorità) l’evidenziazione del testo al centro del foglio (l’idea della “Marie Louise” nelle cornici) il lato vivace e spontaneo della scrittura parlano anche in favore di un approccio commerciale: sa effettivamente vendersi molto bene, circuisce e seduce con la manipolazione. Nasconde ogni eventuale paura, si mette al centro e occupa efficacemente il suo territorio.
Esempio 2
Ragazza di 20 anni, addetta commerciale.

Impegnata, battagliera, dinamica… E’ interessante notare che noi ritroveremo molto spesso i margini di sinistra e destra che mettono il testo al centro della pagina, centratura accentuata dalla posizione della firma piazzata nel mezzo. L’organizzazione nella pagina sembra poter essere interpretata come l’inclusione della firma: protezione da una parte, sicuramente, annullamento di conseguenza di una parte della realtà che non si può prendere in considerazione, come per emergere meglio al centro, prendervi posto con sicurezza, sfacciataggine, quasi con sfrontatezza. Le finali crescenti completano il quadro.
Questi primi due casi non ci pongono troppi problemi. Perché? Perché la scrittura stessa denota questo desiderio d’impatto, questa volontà di occupare lo spazio e di essere riconosciuti. Le posizioni ricoperte o quelle a cui si aspira sono sempre nel settore relazionale o commerciale: Essi sono come condannati a mettersi in evidenza, per annullare la paura, ma si sono immedesimati in questo ruolo e lo sanno interpretare con leggerezza.
Ma il quadro diventa più sorprendente con questo tipo di scritture:
Esempio 3

Giovane studente all’ultimo anno della scuola d’ingegneria, che sa tutto, interviene su tutto con una disinvoltura e sicurezza eccessive, si vuole e si dice socievole, e che ostenta nel colloquio un “Io” abbastanza esagerato. Questa volta l’”Io” si considera, si crede, forse, in ogni caso si ostenta come importante. I segni grafici che vanno in questa direzione sembrano essere: l’accentuazione degli allunghi e delle aste in senso speculare, la dominanza della forma e sempre, accentuando l’insieme, l’impaginazione con lo spazio tra le parole, rifiuto di vedere o di capire ciò che potrebbe rimetterlo in questione. Tuttavia la scrittura ha conservato i segni di vulnerabilità; tratto leggero e tremolante, lento secondo Hegar, andamento irrigidito e senza aisance, angolo d’inibizione. Sembra di notare che, quando le altre variabili della scrittura non hanno “approfittato” delle difese che potevano portare il cerchio e l’impaginazione ecc. il comportamento si rivela eccessivo. Gli scriventi ostentano la sfrontatezza ma non hanno i mezzi di gestirla, di adattarla, di sfumarla, in una parola di assumerne le conseguenze. Essi sono come condannati ad autoconvincersi di possedere questa forza illusoria.
Esempio 4

Caso che si potrebbe definire estremo di questo ragazzo di 17 anni, allievo di terza, che si dà delle arie e inventa di sana pianta nel corso del colloquio, esasperando il suo lato pretenzioso. Non riesce dal punto di vista scolastico ma fa fatica a riconoscerlo. Solo l’assenza del margine superiore viene in appoggio della firma circondata situata al centro: l’insieme della scrittura resta troppo esitante, aleatorio, fragile nella sua struttura e nel movimento per sostenere una tale sfida.
Affinché lo scrivente, impressionato dall’immagine di “grandezza” che ha creato se ne identifichi parzialmente o totalmente con un gioco di specchi, sembra necessario che questo andirivieni tra l’autore e la sua firma si ripercuota sulla scrittura stessa restituendogli, come nei primi esempi proiettati, degli elementi grafici di questa ricerca di potenza: dimensione, struttura, elementi di solidità e di difesa. Lannes, Bugeaud e Rude sapevano occupare pienamente il cerchio col loro nome: nel loro caso i riferimenti esterni portati dalla firma possono venire rinforzati dai riferimenti interni affinché l’insieme ritrovi una coesione e il processo d’identificazione all’immagine di sé sognata e progettata possa compiersi.
Un altro elemento grafico sembra indispensabile affinché l’immagine del sé progettato e l’immagine del sé reale possano parzialmente coincidere e esista l’interazione, ed è il tratto.
In effetti, quando il tratto è troppo spesso l’orgoglio esibito diventa arrogante, insistente, addirittura aggressivo e l’effetto scontato dell’ostentazione diventa meno efficace.
Esempio 5

Ecco Noemi, al secondo anno della scuola d’ingegneria, che presenta sicuramente la nostra sindrome: firma racchiusa, impaginazione “Marie Louise”, finali che si ingrossano, con accentuazione della forma, la forte tensione del tracciato… Ma il tratto non è liberato dalla carica affettiva, di cui lei cerca di bloccare l’espressione trattenendosi e rimuginando. Da qui l’intensità aggressiva e maldestra con la quale ostenta sicurezza, potere sull’altro e sull’ambiente circostante. Lo spessore del tratto crea un clima drammatico e toglie tutta la leggerezza e la capacità di comportamento.
Ultimo caso: il tratto è troppo appoggiato.
Esempio 6

Ecco, per illustrare questa categoria, la scrittura di Luca, giovane ingegnere alle prime armi. Scarso margine superiore, impaginazione a cornice, dominanza di forma, poi firma racchiusa, al centro… ma non serve a niente. Lui è bloccato, arroccato sulle sue posizioni, con un orgoglio diffidente e suscettibile, incapace di reagire alle parole altrui che lui interpreta come un attacco alla sua persona ma alle quali non può ribattere. Il tratto, in solco, blocca ogni possibile esternazione.
Noi abbiamo dunque incontrato tre gruppi di scritture a firme racchiuse:
- Le prime, dove la coerenza testo-firma sembra denotare l’identificazione parziale o totale all’immagine di sé sognata e l’efficacia sociale di tale identificazione.
- Scritture fragili, dal tratto leggero e fine, la bolla della firma che spinge lo scrivente all’esibizione e all’eccesso.
- E infine le bolle rese inefficaci dallo spessore o dall’appoggio eccessivo del tratto.
È interessante notare che nessuna scrittura del nostro campione era col pennarello, ciò che potrebbe essere un tema ulteriore di riflessione. La difesa del cerchio è sufficiente, non ha allora più bisogno di questo altro supporto rappresentato dal pennarello?
Con la scappatoia del cerchio, della bolla magica, è evidente che questa immagine del sé solida e affermata è effimera. Perché questa illusione diventi realtà marcata, è logico che lo stesso tratto marchi questo aspetto effimero con la sua trasparenza. Nel tratto pastoso o troppo appoggiato i muri sono troppo spessi perché il reale e l’immaginario possano anche parzialmente circolare, corrispondere l’uno con l’altro.
Sartre dice, in Huis clos: “Basta che l’altro mi guardi perché io sia ciò che sono”, frase che si potrebbe riprendere e trasformare nell’ambito del nostro studio con “Basta che l’altro mi guardi perché io sia ciò che sogno di essere”. Lo sguardo dell’altro sembra in effetti indispensabile a chi scrive con la firma racchiusa: non può credersi il globo, questa totalità perfetta, non può ritrovare tutta la potenza infantile se un altro di fronte a lui non gliela conferma. Perché questa interazione sguardo-immagine che ci struttura nella relazione tra me e me, nella prospettiva della relazione tra me e l’altro, affinché questa interazione possa operarsi, sembra necessario dal punto di vista grafologico che il tratto, tra l’altro, permetta questa circolazione con la sua leggerezza e finezza.
Ma se questo gioco di specchi s’instaura in un contesto grafico in cui il desiderio di grandezza e la rigidità psichica dominano nettamente (esempio 7, scrittura non riprodotta) lo scrivente sembra improvvisamente, in questo gioco del “io mi nascondo per meglio mostrarmi”, un po’ trascinato da questa immagine eccessiva.
Mai, all’interno del cerchio avevamo riscontrato una tale amplificazione del nome, vera cattedrale di verticalità.

In conclusione, bisogna forse avere sempre presente che per evolversi e risollevarsi efficacemente con la propria bolla magica occorre una certa leggerezza; ma che questa bolla, troppo leggera avendo perduto la sua zavorra, rischia forse un giorno come una mongolfiera di volare via!
